Per qualche collega, quella di Giuseppe Conte che a Berlino cerca il posto in prima fila fra i grandi della Terra, provando a imbucarsi al fianco di Angela Merkel prima di capire di doversi mettere dietro a tutti, è stata una scenetta divertente. Per me no. Come quando, durante un dibattito a Bruxelles, il leader dei liberali europei, Guy Verhofstadt, definì il presidente del Consiglio un burattino nelle mani di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ho provato fastidio, perché ho pensato che nei confronti del nostro Paese ci fosse mancanza di rispetto. L'Italia è tra i fondatori dell'Europa ed è una delle nazioni più importanti, a maggior ragione dopo l'uscita della Gran Bretagna. Come è possibile, dunque, che a Berlino sia stata umiliata nella figura del capo del suo governo'
A dire il vero, però, nella capitale europea non è stato solo umiliato Giuseppe Conte e con lui tutti gli italiani, ma la stessa Europa, perché al di là dalle dichiarazioni di rito, quel vertice è stato una sconfitta. Anzi, una presa in giro, una messa in scena per fingere la pace che in Libia non c'è. Infatti, a pochi giorni dal cessate il fuoco, sono ripresi i bombardamenti. Forse qualcuno potrebbe pensare che quanto accade a Tripoli riguardi i libici e, al massimo, ci interessi per il rischio che da quelle coste partano i consueti barconi. In realtà c'è qualche cosa di assai più grave e minaccioso che dovremmo temere. Sì, certo, gli sbarchi contribuirebbero a rendere ancora più complicata una situazione già ora mal sopportata dagli italiani. Tuttavia, la guerra libica, o meglio la pace libica, potrebbe portarci un mare di guai di cui né il governo italiano, né l'Europa paiono rendersi conto. La storia è la seguente. A Tripoli e dintorni si scontrano due fazioni. Da una parte c'è un governo riconosciuto dall'Onu, che è guidato da Fayez al-Sarraj, dall'altra c'è un generale finanziato e armato dall'Egitto, dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Russia. A prima vista il cattivo sembrerebbe Khalifa Haftar, con le sue truppe di mercenari, mentre il buono risulterebbe al-Sarraj, il presidente che Italia ed Europa, insieme con le Nazioni unite, riconoscono. Peccato che nei giochi geopolitici e nei traffici internazionali nulla sia come appare. Già, perché il capo del governo riconosciuto è appoggiato dalla Turchia, che a Tripoli ha spedito i suoi «giannizzeri» armati fino ai denti e non per beneficenza, ma con obiettivi precisi, il primo dei quali è espandere l'influenza dei Fratelli musulmani, ovvero della corrente più radicale dell'islam sunnita, e l'altro è mettere le mani sui giacimenti di gas e petrolio della Libia. Quello spicchio d'Africa che si affaccia sul Mediterraneo, e che un geometra con il righello ha deciso di ritenere un unico Paese, nel sottosuolo nasconde un tesoro. Là c'è la più grande risorsa energetica dell'Africa e del Medioriente e, come è ovvio, chiunque ci vuole mettere le mani sopra, in particolare i turchi, che di gas e petrolio hanno un bisogno disperato per alimentare la propria economia. Vi paiono cose che possono interessare solo gli economisti e gli esperti di strategie internazionali' Vi sbagliate. Quella del gas e del petrolio libico è una faccenda che ci riguarda da vicino e riguarda l'intera Europa. A Tripoli, infatti, si combatte una guerra che può avere effetti devastanti per il nostro Paese e per il continente. E non per i profughi: per il gas. Nonostante ciò che sostengono Greta Thunberg e gli ambientalisti che immaginano un mondo che viaggia in bicicletta, senza gas o petrolio l'economia si ferma, la luce si spegne, il riscaldamento non funziona. Non so se mi sono spiegato. La guerra in corso non è fra al-Sarraj e Haftar, come si crede. Il conflitto è tra turchi e russi da una parte (Mosca fa il doppio gioco per difendere i suoi interessi petroliferi) e dall'altra ci sono Egitto, Emirati e sauditi, mentre l'Europa sta a guardare. La posta in palio non è Tripoli, del cui destino non importa niente a nessuno, ma sono il gas e il petrolio. E se a vincere questa guerra saranno i turchi, per noi e per l'Europa saranno guai, perché in breve ci troveremo a secco, cioè senza energia. Che Ankara voglia il petrolio e il gas del Mediterraneo è evidente. A Cipro, nelle acque che si estendono tra la Grecia e l'isola contesa, Erdogan ha spedito le navi militari e ha praticamente occupato un campo già assegnato all'Eni e gestito da Total. Cioè si è preso con la forza un pezzo d'Europa. È come se, all'improvviso, qualcuno avesse requisito senza diritto una centrale, decidendo che l'impianto non è più del legittimo proprietario, ma di chi lo ha occupato. Ora, dopo aver occupato manu militari un'area strategica nel Mediterraneo, guarda caso proprio quella in cui doveva passare il gasdotto che doveva collegare Israele all'Europa, la Turchia vuole prendersi la Libia, completando l'opera e rendendo l'Italia e il Vecchio continente completamente dipendenti per il gas e il petrolio dalla Russia e dalla stessa Ankara. In pratica, sotto il nostro naso, stanno chiudendo la pompa di benzina con cui alimentiamo il motore del Paese e anche quello di altri Stati europei. Se il disegno geopolitico di Erdogan non verrà fermato, il destino delle nostre aziende e di conseguenza della nostra economia sarà nelle sue mani e in quelle di Putin, due signori che, com'è noto, non sono proprio dei gentiluomini. Altro che choc petrolifero: se chiudessero i rubinetti, Italia ed Europa conoscerebbero un declino senza fine. Per molto meno, in passato sarebbe scoppiata una guerra. Ma allora, alla guida dei Paesi europei, c'erano degli statisti. Adesso, per dirla con Verhofstadt, ci sono marionette. Ma non soltanto in Italia.
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